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C’è ancora spazio per i brand sui social media? Il vero dilemma è questo

  • “I brand devono scendere dalla giostra dei social media”, ha detto Seth Godin
  • Il dibattito che ha scatenato il documentario The Social Dilemma ha riproposto fortemente la discussione sull’utilità dei social
  • Alla fine, a cosa deve prepararsi una marca? Certamente a un nuovo cambio di paradigma

 

Era il 15 febbraio 2019 quando intervistato da Gianpaolo Coletti su IlSole24Ore, Seth Godin faceva una dichiarazione molto forte a proposito dei social media, ma anche alquanto profetica.

«Dobbiamo far scendere i brand dalla giostra dei social media, che va sempre più veloce, ma non arriva mai da nessuna parte. È giunto il momento di smettere di convincere con insistenza e di disturbare o fare spamming, fingendo di essere i benvenuti. Siamo in una fase storica accelerata che non ammette però scorciatoie e occorre concentrarsi su un percorso lungo e sostenibile, tornare all’autenticità, che passa necessariamente dalle esperienze. A meno che tu non stia vendendo teoremi matematici, stai vendendo emozioni. D’altronde siamo umani, non cyborg. Almeno per ora.».

Il Maestro del marketing moderno (dire guru è forse persino sminuente) individua alcuni concetti basilari per interpretare il domani: accelerazione, spam, sostenibilità, autenticità, esperienze, e infine umanità.

Parole abusate, a volte decontestualizzate e banalizzate a favore di slide nell’atto di convincere l’ennesimo cliente della bontà di una campagna.

Il problema è che in questo caso, Seth Godin parla di social media secondo un punto di vista che, lento e inesorabile, sta cominciando a insinuarsi nella mente non solo dei consumatori, ma anche di chi nel digitale ci lavora.

 

Netflix propone il Dilemma sui social media: e noi cosa rispondiamo?

Se poi ci si mette la piattaforma di video streaming più famosa del pianeta a proporre documentari critici sulla struttura, ecco che il dibattito è servito.

Se avete bazzicato in questi giorni i social e i magazine vi sarete sicuramente imbattuti in qualche thread di discussione su The Social Dilemma, il documentario di Jeff Orlowski presentato al Sundance Film Festival di quest’anno e diffuso online agli inizi di settembre.

Un’ora e mezza di interviste e docufiction che presentano ciò che, per certi versi, chi lavora nel digitale ha sempre saputo (o meglio: avrebbe dovuto sempre sapere), con tanto di principi anche etici messi in discussione: le piattaforme digitali profilano gli utenti e li stimolano alla dipendenza da piattaforma per proporre ADS sempre più affini ai loro caratteri.

Il tutto raccontato con la naturalezza da chi questa sovrastruttura algoritmica che sovrasta le nostre vite ha contribuito a sviluppare, fatto salvo tornare indietro in nome di un’obiezione di coscienza retroattiva che addirittura fa ammettere davanti alla telecamera agli intervistati (fra cui Sean Parker) che i figli non hanno il permesso di usare lo smartphone (aprendo peraltro una serie di interrogativi su che cosa si stia facendo al sistema educativo iniettando nella società certe opportunità tecnologiche).

Non è un caso, visto che ad esempio a Stanford si studiano le tecnologie persuasive da almeno dieci anni e che già nel 2016 Cathy O’Neil (anche lei intervistata nel documentario) scriveva Weapon of Math Destruction, un testo che si concentra proprio sull’onnipotenza dell’algoritmo e della sua capacità di tenere incollate le persone allo schermo del proprio telefonino (se ancora lo possiamo chiamare così).

La domanda non è tanto cosa ci sia di nuovo, ma quanto sia stato chiaro fin dall’inizio che il proposito per cui erano nati i social media (proviamo a scriverlo in poche righe: unire le persone gratuitamente in un’unica grande nazione senza confini, favorendone l’incontro) si sia snaturato a fronte di una comprensibilissima necessità di sostentamento, fino a mutarsi in banalissima vocazione al business.

Una deriva che li ha obbligati a rendersi indispensabili nella vita delle persone per garantirsi la necessaria linfa umana a sopravvivere: una specie di Matrix morbido, possiamo dire, in cui la nostra attenzione diventa l’energia con cui drenare il vero oggetto del contendere, la vendita di ADS.

Ricordate l’audizione di Mark Zuckerberg e il suo sorriso sornione? Quell’espressione quasi divertita, stupita forse dalla necessità di esprimere l’ovvio, è descritta nel documentario secondo il punto di vista di chi ha permesso quel We run ads, una scelta che forse non ha tenuto conto di tutte le controindicazioni sulle generazioni più coinvolte nelle meccaniche digitali (e che ha richiesto anche una sorta di retromarcia).

Non è certo per demonizzare che diciamo tutto ciò: è però evidente che parliamo di qualcosa che, va da sé, fa a pugni con i concetti che Seth Godin poco più di un anno fa metteva alla base delle motivazioni di una scelta che, partendo dalle sue parole, sembrava perlomeno obbligata: in futuro i brand dovranno mollare i social media, se non altro perché semplicemente i consumatori cominceranno a dar spazio a necessità che non li contemplano più.

Diciamo subito: è un processo evidente, ma non così veloce. È certo abbia fondamentali analogici, ed è bello pensare al digitale che si “analogizza” per darsi nuova linfa: perché?

Prendiamo uno dei trend che l’Influencer Marketing Hub isola come quelli attesi per l’anno che verrà: Instagram rimuoverà definitivamente i like. Il fenomeno non è nuovo (ne avevamo parlato su Ninja Marketing anche lo scorso anno) ed è una scelta epocale, ma che può essere letta da due punti di vista diversi.

Quella più evidente: per le piattaforme social sta diventando vitale acquisire definitivamente lo status di paid media, spingendo le marche a investire per affidarsi a metriche sempre più precise e meno velleitarie.

Dall’altro, un’evidenza ben spiegata nel documentario di NetFlix: i social media non possono più essere veicolo per fattori che danneggino i propri utilizzatori, in particolare nelle fasce più giovani. In altre parole, è indubbio che si debbano cercare altri meccanismi per profilare (TikTok, con il tempo di visione di un video che determina il successo di un contenuto, ne è una fresca dimostrazione) senza creare dipendenza da vanity metrics.

Il motivo probabilmente è meno nobile di quanto si pensi: se qualcosa si scopre essere dannoso, presto o tardi verrà spontaneamente abbandonato, o vietato.

Se parliamo però di paid media, allora non è necessario per una marca lavorare su piani editoriali ormai vanificati dalla saturazione della content sfera: bastano degli investimenti, per attivare l’utente su spazi che giochino su aspetti dell’esperienza più autentici e coinvolgenti (ecco che tornano i concetti di Seth Godin).

Non è un caso che Facebook abbia spinto negli ultimi anni i gruppi, che all’inizio del decennio erano stati letteralmente surclassati dalle brand page. Venendo meno la funzione ludica e d’entertainment di queste ultime, è rimasta solo l’essenza dei social media a legare gli utenti a loro stessi: la possibilità di socializzare.

In narrazioni di marca che sono sempre di più collettive e orizzontali diventa centrale la community, intesa come comunità che si aggrega attorno a un -indovinate?- purpose (altro concetto di Seth Godin: umanità) che nobiliti l’esistenza del brand, dandogli senso.

Dove si verifica tutto questo? Sui social media, oggi. Domani? Chissà.

Scendere dalla giostra

Jaron Lanier, il pioniere dell’informatica intervistato in The Social Dilemma, è anche autore del libro “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social“. Nel suo testo, in Italia edito da Il Saggiatore, parla del sistema dei social come la FREGATURA (nella traduzione italiana, acronimo di Fornire ai Re dell’Economia Globale Annunci che Trasformano gli Utenti Ridotti in Algoritmi).

È un’affermazione forte, che però individua contemporaneamente il fine ultimo delle piattaforme social e anche la soluzione: vediamo perché.

Il lockdown ha mostrato come l’uomo abbia riscoperto lentezza e prossimità, due tendenze che erano già state comprese dai player del digitale e su cui le stesse big company hanno cominciato a lavorare con tool ad hoc. Allo stesso tempo, la pandemia da COVID-19 ha evidenziato le problematiche legate alla trasmissione “per via algoritmica” di informazioni infondate, le famigerate fake news, che cambiano il percepito dell’individuo costruendo realtà (e attenzione: non narrazioni!) alternative.

La necessità di “uscire” dalla meccanica algoritmica almeno in questi effetti nefasti si è evidenziata con prepotenza.

Allargando il campo, si è presa coscienza che un certo modo di vivere, dove il tutto e subito non era (è) più sostenibile non solo sul piano del consumo, ma anche su quello relazionale; un mondo dove è necessario rallentare per comprendere, informarsi, gustarsi i momenti, che è contrario all’approccio “flusso” di un newsfeed social.

Le persone hanno ricominciato a rivalutare il tempo come risorsa preziosa, cominciando a chiedere formule di lavoro meno bloccate (il lavoro da remoto ha mostrato che la via smart è possibile) che mettano al centro la propria dimensione personale. Ancora i concetti di apertura di Godin: la tangibilità dell’esperienza e l’autenticità come driver della propria esistenza diventano aspetti non più derogabili.

Le persone vogliono essere persone, prima che algoritmi: una trasformazione in atto, lenta, strisciante, ma che c’è.

Questo significa che i social media verranno abbandonati?

No: semplicemente ridimensionati.

È possibile che presto saranno gli utenti a lasciare quegli habitat, ormai più simili a cataloghi patinati di stereotipi ideali che non a genuini annuari scolastici dinamici dove ritrovare gli amici (d’altronde, Facebook è nato in un’università), in favore di canali dove l’autorialità sia il centro dell’esperienza (in principio è TikTok, ma c’è da scommetterci che sia solo l’inizio).

Mondi dove la metrica sarà la qualità del contenuto e non la semplice, automatica capacità di generare interazioni svuotate di senso (e nessuna introduzione di nuova reaction potrà frenare questa trasformazione), e in cui probabilmente anche la capacità dei marchi di entrare sarà più rispettosa, meno meccanizzata, si spera più attinente a propositi più alti.

I social media continueranno ad esistere, solo sotto un’altra forma.

In attesa che un’intelligenza artificiale prenda definitivamente il controllo della piattaforme, aprendo il prossimo dibattito sul rapporto fra etica, marketing e trasformazione sociale.

D’altronde, questo è il digitale: una giostra che non si ferma mai.

Source: http://www.ninjamarketing.it/

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